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Sala del Valhalla

-GOMIR-

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    latis
    Età: 42
    Sesso: Femminile
    00 02/02/2009 18:46
    IL FURTO DELLE MELE
    Il sogno di un'eternagiovinezza il poter fermare l'inesorabile trascorrere dei giorni con qualche incantesimo ignoto ai comuni mortali, è riflesso, sotto varie forme, in molte tradizioni. Il mito nordico, trovando sorprendenti paralleli con quello greco dei giardino delle Esperidi, racconta di splendidi pomi d'oro, inestimabili frutti destinati agli dèi che, accogliendoli sulle loro mense, sono preservati dalle ingiurie della vecchiaia.


    Anche gli dèi, nelle fredde ed interminabili serate invernali, amavano aflietare i loro ospiti con il racconto di vicende accadute in tempi remoti e, rinnovando il ricordo dei pericoli superati, trarre preziosi insegnamenti e speranze per il futuro. Quella sera il sacro concilio degli Asi aveva accolto il re Aegir e, dopo un sontuoso banchetto, Bragi, il più abile tra loro nella nobile arte della conversazione conviviale, si alzò ed iniziò a raccontare come, «tanto tempo fa ... », gli dèi avessero perso e riconquistato le mele di ldhunn. Ovviamente tutti i presenti conoscevano lo straordinario potere celato negli aurei frutti custoditi gelosamente da ldhunn, moglie di Bragi, in una cassettina di frassino. Essi infatti iniettavano, per così dire, sempre nuova vita nelle vene divine, infondendo loro una inesauribile linfa vitale che invano fattucchiere e maghi tentavano di ricostruire in pozioni e filtri destinati ai creduloni. Bragi, accarezzandosi la fluente barba, narrò di quando Odino, Loki e Hoenir uscirono dalle mura di Asgardh, tentando ancora una volta di soddisfare il loro inesauribile desiderio di avventura. il trio divino, marciando senza sosta, visitò diverse contrade, scalando monti ed attraversando valli, contemplando paesaggi mai scorti da occhio umano.

    Immersi nella solitaria bellezza di fiordi incontarninati e respirando quell'aria frizzante, forse più celestiale di quella di Asgardh, gli dèi ebbero fame, bisogno umanissimo presente, e con proporzioni cormmisurate alle loro doti, anche negli Asi. I divini viaggiatori udirono, proveniente da una valle attigua, il caratteristico rumore di una mandria di buoi al pascolo. Quei muggiti suonarono alle loro orecchie come una musica dolcissima e in un attimo si avvicinarono agli animali, davvero esemplari magnifici, e catturarono il bue più in carne, quello più degno di figurare in un banchetto divino. Non restava che allestire un gigantesco seydir. ripetendo gesti che gli antichi nordici ben conoscevano, gli dèi scavarono una profonda fossa nel terreno e, tra due lastre di pietra arroventate dal fuoco, misero il bue, ricoprendo il tutto con un coperchio vegetale fatto di rami e di foglie. Con sapienza, di tanto in tanto, soffiavano sul seydir, mantenendo la brace costantemente ardente. Ma quando, passato il tempo necessario, pensarono che il bue fosse ormai cotto, si accorsero che l'animale era ancora crudo: come se l'intenso calore sprigionato da quel forno primordiale non lo avesse lambito nemmeno per un istante. I tre allora ricoprirono il seydir con il fogliame e, dopo aver ravvivato ulteriormente la brace, si rimisero in paziente attesa.

    Trascorso un bel po' di tenipo, gli dèi, certi ormai di colmare il loro crescente appetito, si avvicinarono al seydir e lo scoprirono: anche questa volta però la carne era rossa, sanguinolenta, assolutamente immangiabile. Di fronte a quel mistero i tre rimasero di stucco e, animatamente, presero a discutere tra loro, tentando di capire come potesse essere accaduta una cosa del genere. Ma nemmeno il padre degli dèi, riusci a fornire con la sua sapienza una spiegazione di tale insolito e sconcertante avvenimento. Avviliti e delusi, i tre stavano per abbandonare quel luogo sicuramente impregnato di oscure malie, quando, dai rami di una quercia, sentirono una voce. I tre si voltarono di scatto e videro un'aquila gigantesca: fieramente appollaiata, la «signora degli uccelli» affermò con tono deciso di essere stata lei ad impedire la cottura dell'animale. Il maestoso rapace, destando sempre più la curiosità divina, aggiunse che essi avrebbero inutilmente tentato di cuocere il bue se prima non le avessero offerto una porzione. I tre, dopo una breve consultazione,
    acconsentirono: temevano che sotto le spoglie dei volatile si celasse una potenza locale da ossequiare. Come d'incanto, il profumo del bue cotto si sparse immediatamente tutt'intorno, stimolando ancor di più i sensi degli dèi. Planando con le possenti ali sul seydir, l'aquila prelevò con gli artigli la sua porzione: due cosce e le due spalle! Davvero un consistente «boccone» sottratto all'appetito divino e, senza dubbio, un'affermazione di superiorità che suonò come un cocente affronto alle orecchie di Loki. Il dio, rompendo il doppio vincolo del patto e delle regole di ospitalità, afferrò una pertica e prese a colpire l'ingordo rapace.

    Con estrema agilità l'aquila riuscì a stringere con gli artigli l'asta e con un possente battito d'ali s'alzò in volo, trascinando il furioso Loki aggrappato all'altro capo della pertica. L'aquila si allontanò velocemente, raggiungendo altezze smisurate, fino a sfiorare le sommità dei monti. Loki, involontario fardello, si agitava disperatamente: più volte i suoi piedi urtarono contro le cime di altissime querce, causandogli atroci dolori ed orrende ferite. E temendo di precipitare, dato che sentiva le braccia staccarsi dal tronco, Loki supplicò l'aquila di depositarlo da qualche parte: in cambio le avrebbe dato qualsiasi cosa. Il rapace, con un ghigno feroce, rispose che lo avrebbe risparmiato solo se gli avesse portato le mele dell'eterna giovinezza custodite da ldhunn. Pur di placare l'ira dell'aquila ed evitare una morte tremenda, Loki promise di portarle i sacri pomi, sottraendoli alla loro depositaria. Così Loki ebbe salva la vita e, tornato ad Asgardh, iniziò ad elaborare uno dei suoi piani truffaldini per aggirare l'ignara ldhunn. Puntando sulla vanità che alberga in ogni cuore femminile, Loki le si avvicinò raccontandole con il suo tono suadente e mellifluo che in un bosco, poco distante dalle mura di Asgardh, esistevano delle mele molto più belle d quelle da lei custodite.

    Ornando le sue parole con incomparabile abilità riuscì a convincerla a recarsi con lui nel bosco, portando con sé le preziose mele per confrontarle con i favolosi pomi che aveva veduto. Giunti fuori le mura di Asgardh, lontano dagli sguardi divini, Loki condusse ldhunn in una radura circondata da alberi secolari. All'improvviso udirono uno sbattere fuimineo di ali il tipico segnale d'arrivo delle aquile e difatti apparve l'aquila che tanta impressione aveva fatto sul trio divino. Loki, ben conoscendo la potenza del volatile, si fece da parte, lasciando la povera ldhunn in balia dei possenti artigli del rapace che, scorta la sua preda, l'afferrò, portandola con sé verso mete remote. Prima di spiccare il volo però, l'aquila svelò la sua vera identità: era il gigante Thiazi, signore di Thrymheim, uno dei più importanti regni dello Jótunheim. Ora che non potevano più addentare le portentose mele ed assaporarne la fresca polpa rivitalizzante, gli dèi divennero grigi, malsicuri sulle gambe, offrendo lo spettacolo non certo esaltante di una improvvisa caducità. Ovunque in Asgardh regnava la malinconica rassegnazione che contraddistingue i vecchi, desiderosi solo di por fine ai loro giorni. Le mele e la loro custode erano sparite da un giorno ab'altro: sicuramente c'era stato un traditore, un vile che aveva consegnato il segreto dell'eterna giovinezza nelle mani dei loro nemici. Odino, anch'egli affiìtto dagli acciacchi della vecchiaia, convocò l'assemblea divina per scoprire e punire l'eventuale traditore.

    Non ci volle molto per appurare che l'ultimo ad essere stato visto insieme ad ldhunn era stato Loki e, conoscendo la sua innata malvagità, fu facile capire che lui solo avrebbe potuto macchiarsi di una colpa così infamante. Gli dèi si strinsero intorno a Loki e, coprendolo di sguardi di odio, minacciarono prima di torturarlo e poi di ucciderlo se non avesse riportato tra loro gli aurei pomi. Come era solito fare in occasioni simili, Loki si fece prestare da Freya il manto di penne di falco che ella possedeva e, indossatolo, spiccò il volo, diretto alla terra dei giganti, nel lontano Nord. Dopo un po' avvistò la dimora di Thiazi e, muovendosi con abilità nel suo travestimento pennuto, atterrò lì vicino. Con circospezione si avvicinò ad una finestra della reggia e, visto che il gigante non c'era, vi penetrò. Qui trovò ldhunn in lacrime: era divenuta la serva di Thiazi. Ma la dea gli disse di non temere: il gigante era uscito in barca per una delle sue solite battute di pesca e sarebbe ritornato più tardi. Senza perdere tempo, Loki, con un incantesimo, trasformò ldhunn in una minuscola noce e, tenendola stretta con i suoi artigli posticci, si alzò in volo, sperando di riuscire a mettere tra sé ed il gigante una sufficiente «distanza di sicurezza». Intanto però Thiazi era ritornato e, accortosi dell'assenza della dea e dei suoi pomi, si trasformò nell'aquila ormai famosa e si lanciò all'inseguimento dei fuggitivi: in brevissimo tempo avvistò lo strano falco che si dirigeva veloce come il vento verso la cittadella divina. Gli dèi scorsero nel cielo di Asgardh Loki ed il suo inseguitore e, secondo una tattica già attuata altre volte con successo, formarono grossi mucchi di trucioli e li misero al centro della piazza della città.

    Quando Loki ed il suo passeggero atterrarono, gli dèi appiccarono il fuoco. L'aquila, che nel tentativo di ghermire il falco si era abbassata fino a toccare terra, fu lambita dalle fiamme che, ormai altissime, si levavano dalle pire di trucioli. Pronti a raccogliere i frutti di quell'insolita «contraerea», gli dèi trafissero con le loro lance Thiazi. L'eco dell'impresa di Loki e dell'uccisione di Thiazi giunse fino ai gelidi territori dei giganti. Skadhi, la figlia di Thiazi, animata dalla disperazione e dall'odio, si preparò a
    soddisfare la sua sete di vendetta. Armata fino ai denti d'una pesante corazza e d'uno spesso elmo, Skadhi si presentò fiera e minacciosa alle porte di Asgardh. La sua presenza intimorì non poco gli dèi che ben conoscevano la furia devastatrice della forza e dell'odio, una miscela esplosiva che più di una volta aveva animato le feroci incursioni di giganti incolleriti. Per tentare di evitare morte e distruzioni, gli dèi inviarono messaggeri proponendole di scegliersi uno di loro come sposo, a patto, però, che lo scegliesse guardando i loro piedi, senza cioè poterne conoscere l'identità. Insomma le offrivano la possibilità di divenire una dea, un essere venerato dai mortali. La proposta piacque alla gigantessa che però pose un'ulteriore condizione per rinunziare alla vendetta: gli Asi dovevano farla ridere. Il concilio divino accettò la bizzarra richiesta e si diede il via, come prima cosa, all'inusuale cerimonia di «scelta dello sposo». Gli Asi si presentarono al cospetto di Skadhi con il corpo completamente coperto dagli indumenti: solo i piedi erano visibili. Esaminando le estremità divine, la ragazza scelse il dio che aveva i piedi più bianchi: pensava che fosse Balder, il figlio di Odino celebre per la sua bellezza ed innocenza nonché per il candore della carnagione.

    Ma Skadhi si era lasciata trarre in inganno: si trattava di Njdrdhr, il dio che aveva perennemente i piedi nel mare, cosicché
    la salsedine glieli aveva completamente imbiancati. Bisognava adesso soddisfare la richiesta di Skadhi, ma nessuno, guardando il volto accigliato e corrucciato della gigantessa, pensava che si sarebbe lasciata andare al minimo segno di allegria: era davvero impossibile immaginare un racconto faceto o una figura comica capace di rimuovere da quel viso la rabbia e la tristezza. Eppure la fantasia perversa di Loki, dominatore assoluto in simili occasioni, escogitò una scena davvero esilarante: il signore degli inganni legò una corda alla barbetta di una capra e, denudatosi, fissò l'altro capo della fune al proprio scroto. La capra ed il dio, intimamente legati, si tiravano l'uno con l'altro ed emettevano, ognuno secondo la sua natura, delle grida di dolore. Loki, poi, con una vocettina querula, mischiava alla schietta espressione di dolore dei gridolini di piacere, simulando una grossolana eccitazione. La scenetta ebbe termine quando Loki, mimando gli spasimi che precedono l'orgasmo, si lasciò cadere sul grembo della gigantessa che, non potendosi più trattenere, proruppe in una sonora risata. Gli antichi poeti nordici, nel raccontare questo episodio, ricordavano come il riso smuova ogni situazione di crisi, sanando ogni screzio con la sua gaia sonorità. Skadhi si riconciliò con gli Asi che l'accolsero tra di loro. Odino infine, quale ulteriore guidrigildo per la morte del padre, trasformò gli occhi di Thiazi in due stelle, che gli antichi nordici sapevano individuare nell'affollato firmamento: erano chiamate «occhi del gigante»
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    latis
    Età: 42
    Sesso: Femminile
    00 02/02/2009 18:49
    Thor Contro Geirrodhr
    Nei suoi avventurosi viaggi nelle terre dei giganti, Thor è spesso accompagnato da Loki, il più astuto e malvagio degli dèi. Anche questa avventura ha un suo antecedente che vede come protagonista il perfido Loki, finito nelle grinfie di un gigante a causa della sua sfrontatezza. Dopo aver a lungo insistito ed adoperando tutto il suo doppio eloquio, Loki era riuscito a realizzare uno dei suoi sogni: aveva convinto la moglie di Odino, Frigg, a prestargli il suo magico manto di penne di falco. Ora, travestito da improbabile rapace, poteva sorvolare senza troppi pericoli le terre dei giganti ed esplorare i loro possedimenti. Così, inseguendo le sue recondite curiosità, il dio pennuto si era da poco librato in volo ed assaporava l'ebbrezza di quella celestiale nuova dimensione, quando scorse il palazzo di Geirrddhr, il potente re dei giganti. Sentendosi sufficientemente protetto dal suo travestimento, Loki si affacciò ad una finestra del palazzo reale e, attratto dallo spettacolo fastoso della corte, penetrò nell'immenso salone.

    Pensava che, volando in alto, forse non si sarebbero nemmeno accorti di lui. Ma quell'insolito e goffo uccellaccio non poteva certo passare inosservato: fu proprio Geirrddhr a scorgerlo per primo, ordinandone immediatamente la cattura. Allora un servitore, un vero e proprio colosso, iniziò a rincorrere lo strano volatile. Ma Loki, signore assoluto del dispetto, si divertiva a sfuggirgli, volando da un punto all'altro della sconfinata sala, facendo disperare il suo inseguitore. Alla fine però il gigante riuscì a bloccare con una presa micidiale i piedi del dio che, ormai, non sghignazzava più. Immobilizzato e reso del tutto inoffensivo, il misterioso intruso fu condotto al cospetto di Geirrddhr. Il gigantesco sovrano squadrò dall'alto verso il basso l'impacciato volatile e, in un attimo, comprese che si trattava di un sortilegio, un incantesimo che aveva dotato di ali quell'essere venuto da chissà dove. Il re, minaccioso e fiero, iniziò ad interrogare il prigioniero, ma Loki rifiutava di rispondergli e, con somma sfacciataggine, si divertiva a prenderlo in giro. Irritato ed offeso, Geirrddhr lo fece rinchiudere in una cassa: senza un briciolo di commiserazione, lo lasciò inarcire nell'angusta prigione per tre mesi senza alcun cibo. Dopo la spossante prigionia ed il digiuno forzato Loki perse gran parte della sua baldanza, ma non la sua astuzia; rivelò al re la sua vera identità e, tendendogli una trappola a cui aveva pensato a lungo, gli promise di condurre nei suoi territori, pronto ad essere catturato, il principale nemico dei giganti, Thor.

    Geirrodhr, pensando che gli sarebbe stato facile liquidare Thor se questi avesse messo piede nella sua regione, fece liberare Loki. Intanto il maestoso signore dei tuono, chiamato da Loki, si era già messo in cammino ed aveva varcato da un pezzo le frontiere dello Jótunheim. Stanco del cammino, aveva chiesto ed ottenuto ospitalità da una sua amica, la gigantessa Gridhr, madre di Vidhar, detto il «silenzioso». La gigantessa, che nutriva una profonda simpatia per il dio dalle chiome fulve, mise in guardia il suo ospite e gli svelò i progetti del re. Inoltre, spinta da una naturale antipatia nei confronti dì Geirrbdhr, la padrona di casa gli donò dei portentosi oggetti: una cintura magica capace di raddoppiare la forza muscolare di chi l'indossava; un paio di guanti di ferro, ma morbidi e comodi da calzare; infine un bastone durissimo, il famoso Gridharvoir, il «bastone di Gridhr». L'indomani, forte delle sue nuove armi, Thor si avviò verso la reggia di Geirrddhr. Lungo la via si trovò a dover guadare il fiume Vimur, che segnava il confine con le terre del gigante. Sostenendosi su Oridhavdlr, ben piantato nel letto del fiume, Thor entrò nelle acque gelide, sfidando le insidiose correnti. Ma giunto proprio al centro del fiume, il livello dell'acqua sali paurosamente, minacciando di travolgere il dio. Volgendosi a monte per scoprire la causa del repentino aumento di pressione, Thor scorse Gjalp, una delle figlie del re dei giganti, che sedeva a cavalcioni sul corso d'acqua.
    Qualcuno, forse esagerando, raccontava che la colossale fanciulla stava orinando e qualcun altro aggiungeva che, colmo delle nefandezze, versava il suo copioso flusso mestruale nelle acque limacciose. In ogni caso, l'ira di Thor non tardò a manifestarsi in tutta la sua potenza: il dio afferrò un enorme macigno dal greto del fiume e urlando irripetibili imprecazioni lo scagliò contro la giovane maleducata. Poi, per salvarsi dalla massa d'acqua che stava per sommergerlo, si aggrappò ai rami di un sorbo che sporgevano dalla riva e guadagnò rapidamente la sponda opposta, mettendosi in salvo. E proprio per questo motivo che il sorbo, provvidenziale salvatore dei dio, era oggetto di particolare venerazione da parte dei devoti di Thor. Ed inoltre, ricordando anch'essi tale episodio, gli antichi poeti nordici chiamavano l'albero il «salvatore di Thor». Superata la prima imboscata tesagli da Geirrddhr, il dio del tuono giunse alla corte del gigante. A quanto sembra, Thor non fu accolto con gli onori dovuti al suo rango: come dimora notturna gli offrirono un misero ovile, dove, sicuramente, lo attendevano altri tranelli. Ma, accettando la tacita sfida, il dio si recò nel poco divino alloggio. Qui, come indegno letto, trovò solo uno scomodo e duro seggio sul quale, ormai sempre più sospettoso, si accasciò esausto.

    Dopo un po', come per sortilegio, il pesante sedile iniziò ad alzarsi velocemente: sicuramente si trattava di un vile stratagemma per schiacciare contro il soffitto l'ignaro ospite. Thor, però, subito si rese conto della macabra macchinazione e, cingendosi con la portentosa cintura donatagli da Gridhr, puntò il bastone contro le travi del soffitto, riuscendo così a bloccare la micidiale ascensione. Quando ripiombò di colpo con tutto il suo peso sul seggio, Thor udì un tremendo boato e urla agghiaccianti: sotto il sedile si erano nascoste le figlie di Geirródhr, Gjalp e Greip, facendo da gigantesche leve in carne ed ossa a quefl'orrendo meccanismo di morte da loro architettato. Ma il contraccolpo provocato dalla repentina caduta di Thor aveva sfracellato le schiene delle scellerate attentatrici. li giorno dopo, come se nulla fosse accaduto, Thor venne invitato dal re a visitare il suo palazzo. Nell'immensa sala del trono ardevano enormi bracieri su cui erano poste pesanti sbarre di ferro, incandescenti attrezzi destinati ad esibizioni di coraggio e potenza da parte di intrepidi guerrieri. Thor, vedendo quei fuochi, pensò che il gigante aveva abbandonato i vili trabocchetti ed intendeva sfidarlo in qualche gara o invitarlo a battersi con qualcuno dei suoi campioni. Abbandonata per un attimo la sua diffidenza, il «dio rosso» si avvicinò al trono.

    All'improvviso, dando ancora una volta prova della sua viltà, Geirródhr scagliò con violenza contro il suo ospite una spessa sbarra incandescente, tentando di coglierlo di sorpresa. Ma i riflessi di Thor erano scattanti come saette: le sue mani, avvolte nei guanti di ferro, afferrarono il pesante proiettile, bloccandolo in una presa decisa. Il gigante, ormai preda del panico, sradicò dalle fondamenta del palazzo una colonna di ferro e la lanciò contro il dio: anche questa volta Thor parò il colpo e, ormai stanco e disgustato, afferrò con entrambe le mani la massiccia colonna e la scagliò nell'angolo dove si era nascosto il ì,e. Non si era mai udito, in quelle terre, un boato cosi terrificante: l'immenso palazzo crollò, seppellendo sotto un mare di calcinacci l'imprudente re che aveva osato sfidare il più forte degli Asi.
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    latis
    Età: 42
    Sesso: Femminile
    00 02/02/2009 18:50
    La Canzone di Earandil
    Earendil era uomo di mare,
    Eppur si attardava a Arvernien;
    Costruì una barca di legno
    Per recarsi sino a Nimbrethil;
    D'argento tessute le vele,
    D'argento eran pur le lanterne,
    E la prua in forma di cigno,
    E la luce sulle bandiere.


    Un'armatura dei re antichi,
    In maglia di anelli intrecciati;
    Sullo scudo intagliate le rune
    Contro tutti i pericoli e i mali;
    Un arco di corno di drago,
    Le frecce di ebano duro,
    D'argento splendente la cinta,
    E Il fodero di crisopazio;
    Valorosa la spada d'acciaio,
    Inflessibile l'elmo orgoglioso
    Sormontato da una piuma d'aquila;
    Uno smeraldo gli splendea sul petto.


    Sotto la Luna sotto le stelle
    Dai nordici liodi andò vagabondando,
    Per meravigliosi sentieri incantati,
    Sino a un mondo al di là dei mortali.
    Dal gelido tormento dello Stretto Ghiaccio
    Ove l'ombra ricopre le colline glaciali,
    Dalle fiamme e il fuoco di antri arroventati,
    Egli fuggi via e ancor vagando
    Su acque cupe e su laghi fatali
    Giunse infine un giorno alla Notte del Nulla,
    E vi s'inoltro e non vide mai traccie
    Di rive, di spiaggie, di luci o di rocce.
    I venti incolleriti, furibbondi lo travolsero,
    E tra schiumae schiuma fuggi ciecamente
    Senza più sapere dove est e ovest fossero
    Cercando la via di casa disperatamente.


    In quel momento Elwing gli apparve davanti,
    E brillò una fiamma nell'oscurità;
    Più fulgida e splendente di luce di diamanti
    Era la favilla della sua fronte.
    Donò a lui il Silmaril,
    Incoronandolo di luce e di vitalità,
    Così intrepido e forte e prode Earendil
    Riprese il comando dellasua nave.
    Nella buia notte di questo mondo oltre il mare
    Si levò dìimprovviso una tempesta violenta,
    Un vento di potere e potenza a Tarmenel.
    Trascinò veloce la sua barca la tormenta
    Per sentieri che mortali non percorrono ma.
    Attraverso mari remoti e abbandonati,
    Attraverso grigi flutti incantati
    Da oriente a occidente senza tornare mai.


    Condotto da onde nere e ruggenti
    Per leghe infinite, su abissi profondi,
    Ove prima che iniziassero i giorni vi erano terre,
    Nella NOtte del Nulla, nelle ombre frementi,
    Udì su rive di perle
    Ove frangono i flutti, ove muoiono i mondi,
    Una musica eterna vibrare
    Tra loro le gemme trasportate dal mare.
    Silente e pensosa la montagna si ergeva,
    E nel suo grembo Valinor il vespro teneva;
    Earendil scorse al di la del mar
    Splendente, lontano, remoto, Eldamar.
    Sfuggito era infine alla notte,
    Giunto in un limpido porto,
    Nella Casa di Elfi ove tutto è verde e conforto,
    Ove l'aria è fragrante e il cielo cristallin,
    Ove ai piedi del colle di Ilmarin
    Splendite e fulgenti nelle vallate
    Di Tirion le alte torri illunminate
    Si riflettono sul Lago Ombroso.


    Lì Placò la stanchezza del viaggio,
    Imparando melodie soavi,
    Ascoltando come un miraggio,
    i Racconti e le storie degli avi.
    Lo vestirono di elfico bianco
    Ed ei partì per contrade nascoste,
    Sette luci sul suo cammino stanco,
    Come se attraversasse il Calacirian.
    Giunse nei luoghi ove ove il tempo non scorre,
    Ove gli anni risplendono eterni,
    Ed il Remoto Re governa perenne
    Ad Ilmarin sulla Montagna solenne;
    Gli svelaron segreti e misteri
    Sul conto delgi Elfi e degli Uomini veri.
    Del mondo gli mostraron visioni
    Proibite ai comuni mortali.


    Poi un nuovo vascello cosntruirono per lui
    In cristallo elfico intagliato;
    E sull'albero d'argento sbalzato
    Nessuna vela aveva issato:
    Il Silmaril era allo stesso tempo
    Lantera brillante e bandiera al vento
    Posta sulla nave dalla mano di Elbereth;
    Ella diede a Earendil delle ali immortali,
    E dei perenni incantesimi fatali,
    Per pooter giungere navigando nei cieli
    Della Luma e del Sole al di la dei veli.


    Dalle alte colline di Sempresera
    Ove l'acqua delle fontane scorre leggera,
    Le ali lo portarono, pari a luce vagante,
    Oltre l'imponenete Muro di Montagne.
    Ma un giorno dalla fine del mondo,
    Per la sua amata casa pieno di nostalgia,
    E si rimise in viaggio onde ritrovarla
    Sfavillante come un'isola di stelle;
    Giunse così in alto oltre nubi e nebbie,
    Una scintilla al cospetto del Sole,
    Un prodigio di fronte all'alba nascente
    Ove delle Terre Nordiche scorre il grigio torrente .


    Sulla Terra di Mezzo passo volando
    E udì i lamenti, la tristezza e il pianto
    Di molte elfiche voci femminili
    Nei Tempi Remoti, negli anni lontani.
    Ma egli sapeva di essere condannato
    A vagar come un astro infuocato
    Finchè la Luna non fosse sbiadità,
    Prima di poter posare le dita
    Sulle sponde di Qui ove viviono i mortali;
    Mai il messaggero si potrà riposare
    E nemmeno il suo compito abbandonare
    Che è di recar lungi il suo lume senza ingiuria,
    Il Flammifer dell'Ovesturia.






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    latis
    Età: 42
    Sesso: Femminile
    00 02/02/2009 18:51
    La disfatta dei nibelunghi
    Morto Sigfrido, entrano in scena gli illegittimi detentori del suo tesoro, i due fratelli Hógni e Gunnar, principi dei Nibelunghi, destinati a pagar caro il loro delitto. Questo episodio, narrato anche nella seconda parte del Nibelungenlied, seppure privo dei particolari raccapriccianti presenti nell'arcaica versione nordica, è il trait d'union con un altro ciclo di leggende dove Gudhrun, unica superstite, sposa il re Ionakr, innescando così un'ulteriore serie di vendette e di avventure.

    La melanconica atmosfera dei giorni di lutto solenne proclamati in onore di Sigfrido rischiava di travolgere in un precoce declino la sua giovane vedova. Gudhrun, infatti, non aveva ancora conosciuto i primi devastanti segni della vecchiaia: il suo volto era fresco e poteva ispirare ancora teneri sentimenti. E in mezzo alla tristezza generale ci fu chi seppe apprezzare il suo fascino discreto. Era giunto alla corte dei Nibelunghi il valoroso re Atli anch'egli colpito da un lutto familiare, l'inspiegabile suicidio della sorella Brunilde. Il condottiero, famoso per la sua crudeltà e spietatezza, seppe trovare le parole giuste per lenire il dolore della giovane vedova di Sigfrido, legandola a sé con delle promesse di matrimonio. Seppure leggermente contrariati, Hógni e Gunnar diedero il loro consenso alle nozze: Gudhrun partì con Atli, per ricominciare una nuova vita in un nuovo regno. Ma Atli, il quale aveva sentito delle voci sul tesoro trafugato dai Nibelunghi, aveva ben altri progetti: sognava la sfavillante massa aurea, i preziosi gioielli su cui erano incastonate gemme di dimensioni eccezionali. Senza farle mai sospettare nulla, iniziò a parlare con Gudhrun di una possibile visita dei suoi fratelli nel loro regno: ormai gli anni erano passati, avevano avuto due figli, eppure non avevano rivisto Gunnar ed Hogni. Giorno dopo giorno, con diabolica maestria, Atli invitava Gudhrun a mandare messaggeri ai suoi fratelli per organizzare una grandiosa festa in loro onore. Intanto, nel regno dei Nibelunghi crescevano i dubbi: c'era chi, nelle pressanti richieste di Gudhrun, vedeva una trappola per impadronirsi del tesoro e perciò sconsigliava la visita; altri dicevano che, rifiutando, avrebbero fornito ad Atli un pretesto, un casus belli per invadere il loro regno; altri ancora, fiduciosi, sostenevano che non c'era nulla da temere. Inoltre, Gunnar ed Uogni erano dilaniati dal sospetto che la sorella avesse scoperto i tragici retroscena della morte di Sigfrido.

    Dopo lunghe discussioni, i Nibelunghi accettarono l'invito. I due fratelli, però, presero delle precauzioni: innanzitutto, seppellirono il tesoro in un punto del fiume Reno che essi solo conoscevano e, preparandosi ad ogni evenienza, scelsero i migliori guerrieri del regno e, armatili fino ai denti, si fecero scortare. Molti presagi sinistri accompagnarono il viaggio dei Nibelunghi e più di una volta i cavalieri della corte tentarono di dissuaderli, ricordando analoghe profezie che si erano udite da tempo: si parlava di una imminente disfatta del loro popolo, di un'immane sciagura che li avrebbe travolti. Ma, ormai decisi a non venir meno alla loro parola, Gunnar ed Hógni diedero ordine di avanzare. Il corteo dei Nibelunghi, appena varcati i confini del regno di Atli, fu circondato dalle schiere nemiche: migliaia di terribili guerrieri, vere belve umane temute dagli eserciti di tutto il Nord. A nulla valsero i loro tentativi di difesa: in breve tempo vennero sconfitti e, a causa delle crudeltà degli aggressori, si trattò di un massacro in cui perirono tutti i cavalieri della corte dei Nibelunghi. Solo Gunnar ed Hógni scamparono a quell'eccidio, ma conobbero l'umiliazione della prigionia: in catene furono condotti nella reggia di Atli. Qui, secondo una tecnica ben collaudata, vennero separati e, dopo aver subito atroci torture, Ounnar ricevette la visita di Atli. Il re gli confermò le sue supposizioni: voleva il tesoro, solo così, aggiunse, avrebbe avuto salva la vita. Gunnar, sorprendendo il suo carceriere, gli rispose che era disposto a rivelare il posto dove era nascosto l'oro, ma prima dovevano portargli il cuore del fratello. Di lì a poco, con una macabra efficienza, il cuore ancora palpitante di Hdgni fu deposto ai suoi piedi: solo allora Gunnar svelò le ragioni di quella sua crudele richiesta. In quel modo, infatti, era sicuro che il tesoro non sarebbe caduto nelle mani di Atli: egli infatti non avrebbe mai parlato, e nessuno, oltre a loro due, conosceva il punto preciso del Reno dove era stata sprofondata la massa aurea. Ormai fuori di sé per aver provocato inutilmente una strage, Atli fece gettare Gunnar nella fossa dei serpenti. E fu qui che avvenne un prodigio eccezionale: all'improvviso, materializzatasi dal nulla, apparve un'arpa. Gunnar aveva le mani legate, ma, altro prodigio, riusci a suonare lo strumento con le dita dei piedi. La melodia soave e accattivante, paralizzò i rettili, facendoli addormentare. Sembrava proprio che una potenza oscura proteggesse il fratello di Gudhrun. Ma dopo qualche tempo, una vipera si destò dal provvidenziale letargo e, con sinuose movenze, iniziò ad avvicinarsi al ventre di Gunnar. La serpe, come era prevedibile, lo morse, ma lo fece con tale energia che riuscì a penetrare con la testa, nelle viscere dei prigioniero: la vipera strisciò fino al fegato di Gunnar, divorandolo con ingordigia. Il principe conobbe la più crudele delle morti. Nessuno poté mettere le mani sul tesoro dei Nibelunghi, chiamato da allora in poi «l'oro dei Reno». Gudhrun, nel frattempo, aveva appreso della strage del suo popolo e covava una vendetta pari alla crudeltà di Atli.

    Mettendo da parte il suo amore materno, uccise i due figlioletti avuti da lui e, rivolgendosi ad un fabbro di sua fiducia, fece montare i crani dei due fanciulli su delle basi d'argento e d'oro, ricavandone due macabre coppe. La sera stessa quando Atli organizzò il banchetto funebre in onore di Gunnar ed Hógni, come se nulla fosse successo, la regina riempì personalmente d'idromele le coppe-cranio e le porse al re che, ignaro, bevve con avidità. Il liquido, che era stato addizionato con sostanze stupefacenti, fece crollare Atii in uno stato di ebetudine stuporosa, inibendogli qualsiasi possibile reazione. Fu a quel punto che Gudhrun lo apostrofò con dure parole, ingiuriandolo gravemente e, in un crescendo di indignazione, gli confessò l'orrendo crimine di cui si era macchiata per vendicarsi e gli raccontò dei crani. Infine, vedendo che Atli intontito dalle droghe nemmeno l'ascoltava, l'uccise e subito dopo appiccò il fuoco alla sala, facendo perire in un rogo gigantesco quasi tutta la corte. Stremata per aver assistito a tanta distruzione e morte, Gudhrun si recò fino al fiordo: voleva por fine a quei suoi tristi giorni, così funestati dal sangue dei suoi cari. E si tuffò nelle acque limacciose. Straordinariamente, i frutti gelidi del mare del Nord non travolsero la sventurata regina, ma trascinarono il suo corpo stanco fin sulle lontane spiagge della terra del re lonakr. Per un altro oscuro disegno del destino accadde che la giovane naufraga fosse soccorsa proprio dal re che, di fronte al viso sfatto di Oudhrun, provò un naturale sentimento di compassione, trasformatosi però immediatamente in amore. E cosi, per la terza volta nella sua vita, Gudhrun conobbe i fasti di una reggia: sposò lonakr. Oudhrun visse un lungo periodo di tranquillità, allietato dalla nascita di tre figli: Sorli, Hamdhir e Erpr. E, cosa che la riempiva di gioia, i tre ragazzi avevano i capelli neri come corvi: una caratteristica dei Nibelunghi. Inoltre, era riuscita a riavere, non si sa come, la figlia avuta con Sigfrido, la bellissima Svanhild. Un giorno, il potente re lermunrekkr sentì parlare della leggiadra beltà di Svanhild: dicevano che era la donna più affascinante del mondo, la signora incontrastata della perfezione delle forme e della grazia inuliebre. Allora lórmunrekkr mandò, in qualità di ambasciatore delle sue offerte di matrimonio, suo figlio, il giovane Randver nel regno di lonakr. Ma visto lo splendore dei tratti di Svanhild, il figlio del re dimenticò la missione paterna e, seguendo i suoi desideri, chiese la mano della fanciulla per sé. Qualcuno però riferì la cosa a lórmunrekkr che, risentito per la sfrontatezza del figlio, lo richiamò a corte. Qui, senza alcuna pietà, lo fece rinchiudere nelle prigioni del regno. Il principe, dalla sua prigionia, mandò al padre uno strano regalo: un falco, uno splendido esemplare, ma privo di penne. Il re capì il messaggio e le ingiurie celate nell'innocuo pennuto: come il falco, nobile uccello, privo di penne, non poteva volare, così lui, decrepito e reso impotente dall'età, non avrebbe mai potuto coitare con la bella Svanhild. Ma c'era di più: nell'antico simbolismo, il falco spennato equivaleva all'amante derubato e, con quel regalo, il giovane confessava di aver già goduto i piaceri della principessa «rubandoli», per l'appunto, al padre: l'«amante tradito».

    Il re, colpito a morte nell'onore, fece impiccare suo figlio e preparò un'orrenda morte per la principessa che gli aveva preferito Randver. Poco dopo, infatti, fece catturare Svanhild e la condannò alla pena destinata alle adultere: morire calpestata dagli zoccoli dei cavalli. Quando Gudhrun vide il cadavere martoriato della figlia avuta dal suo primo, e forse unico, amore, rivisse le tragiche fasi della sua esistenza: le sciagure che, senza un attimo di tregua, continuavano ad abbattersi su di lei. Ed ancora una volta fu costretta a tramare una vendetta: forgiò delle corazze e degli elmi tanto robusti che nessuna spada avrebbe mai potuto scalfirli e li diede ai figli, inviandoli nel regno di lormunrekkr per uccidere il re: Sorli e Hamdhir dovevano mozzargli le mani, mentre Erpr doveva decapitarlo. I tre partirono subito, ma durante il viaggio Sorli e Hamdhir iniziarono a prendere in giro Erpr: non capivano quale era il suo compito, visto che loro due erano più che sufficienti per eliminare il re. E, una parola dopo l'altra, la tensione crebbe fino a quando i tre fratelli litigarono furiosainente: Erpr venne sopraffatto e mori sotto i colpi dei fratelli. I due attentatori giunsero di notte nel palazzo di lormunrekkr e lo sorpresero nel sonno. Eseguendo gli ordini materni, Sorli e Hamdhir gli tagliarono le mani ed i piedi, ma, nonostante il dolore, il re trovò il fiato per chiamare la sua guardia personale. I colpi dei guerrieri reali non avevano alcun effetto sulle armature dei figli di Gudhrun. Ormai immerso in un lago di sangue, il re gridò di colpirli con delle pietre e, afferrati dei massi, le muscolose guardie abbatterono i due. Solo in quell'attimo Sorli e Hamdhir compresero l'enorme sbaglio che avevano fatto quando avevano ucciso Erpr. Ma evidentemente era stato il destino a guidare le loro mani fratricide, affinché la maledizione che perseguitava i Nibelunghi compisse l'ultimo suo atto: da "ora, infatti, la schiatta dei principi «neri come corvi» scomparve dalla faccia della terra.